Con la recente legge 27 settembre 2021, n. 134 sulla riforma del processo penale[1], il legislatore italiano ha conferito delega al Governo di “prevedere che il decreto di archiviazione e la sentenza di non luogo a procedere o di assoluzione costituiscano titolo per l’emissione di un provvedimento di deindicizzazione che, nel rispetto della normativa dell’Unione europea in materia di dati personali, garantisca in modo effettivo il diritto all’oblio degli indagati o imputati” (art. 1, 25° comma).
Il legislatore interviene così su un tema ormai largamente dibattuto, ma ancora oggetto di studio e di evoluzione. Il percorso del diritto all’oblio è infatti da esaminare nel tempo e nella giurisprudenza che, per prima nel lontano 1958[2], ha riconosciuto questo diritto, poi disciplinato in sede europea dapprima con la Direttiva 95/46/CE e, oggi, con l’art. 17 del Regolamento (UE) 2016/679, meglio noto come General Data Protection Regulation o “GDPR”.
Tuttavia, il diritto all’oblio, malgrado il sentire comune, non corrisponde solamente a un generico diritto alla cancellazione dei dati personali. Il diritto all’oblio assume, piuttosto, almeno tre accezioni, ognuna delle quali affonda le proprie radici in diritti della personalità distinti: il diritto alla riservatezza, il diritto all’identità personale e il diritto alla protezione dei dati personali[3].
Senza soffermarsi sulle tre declinazioni del diritto all’oblio per necessarie ragioni di brevità, è sufficiente notare, ai fini che qui interessano, che il legislatore ha disciplinato il diritto all’oblio nella sua terza accezione, quella di diritto dell’interessato alla protezione dei suoi dati personali e, in particolare, in questo caso, alla cancellazione dei dati personali.
Lo si evince dalla norma stessa che fa riferimento alla deindicizzazione[4] – vale a dire quell’operazione volta a impedire che un determinato contenuto on line possa essere cercato e trovato tramite motori di ricerca esterni rispetto al sito web che originariamente lo ospita – come strumento di attuazione del diritto all’oblio. Il legislatore prevede, infatti, che il soggetto indagato o imputato possa esercitare il proprio diritto all’oblio invocando il decreto di archiviazione o la sentenza di non luogo a procedere o di assoluzione, ai fini dell’emissione di un provvedimento di deindicizzazione.
La deindicizzazione, tuttavia, non è uno strumento che può essere impiegato in qualunque occasione, così come il diritto all’oblio non è (rispetto invece all’aspettativa sociale) un diritto ad nutum, esercitabile senza motivazione e non sottoposto a limitazioni.
Si tratta, al contrario, di strumenti che vanno ponderati ed azionati in ragione delle caratteristiche dei dati personali e sulla base di un bilanciamento con altri diritti e libertà. Prima di procedere alla deindicizzazione di un contenuto, ad esempio, occorre valutare che il diritto all’informazione o la libertà di espressione non prevalgano sul diritto all’oblio, ipotesi che ricorrono solitamente quando sia trascorso un esiguo lasso di tempo tra la pubblicazione della notizia e il verificarsi dei fatti rappresentati oppure quando vi sia una specifica attinenza tra la notizia e il ruolo o la professione del soggetto coinvolto.
Ad una prima lettura, la norma qui in esame sembra invece recare un bilanciamento ex lege, sancendo a priori la preminenza del diritto all’oblio nel caso in cui il procedimento penale si concluda con un provvedimento favorevole all’imputato o all’indagato. Così facendo, pare che il legislatore italiano abbia sfruttato quel ristretto margine d’azione accordato dall’art. 17, 1° comma, lett. e) del Regolamento che prevede la cancellazione dei dati personali in adempimento ad un obbligo legale previsto dall’ordinamento europeo o nazionale.
Assecondando un’altra interpretazione, invece, si potrebbe ritenere che il legislatore abbia solamente individuato un presupposto per l’esercizio di tale diritto (il decreto o la sentenza funge solo da “titolo” per l’emissione del provvedimento di deindicizzazione), lasciando ad un momento successivo l’effettiva valutazione, caso per caso, del contenuto da rimuovere e il contemperamento degli interessi in gioco.
Anche volendo aderire a questa impostazione, rimangono tuttavia alcune questioni aperte, come ad esempio il contenuto e la portata geografica dell’ordine di deindicizzazione, oltre che l’individuazione dell’autorità chiamata a effettuare il bilanciamento prodromico alla decisione di deindicizzazione. Profili questi che forse potranno essere chiariti nel decreto legislativo con cui il Governo è chiamato a dare attuazione alla norma.

[1] Si tratta della l. 27 settembre 2021, n. 134 “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”, il cui testo è disponibile al seguente link http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2021-09-27;134!vig=2021-11-04.

[2] La genesi del diritto all’oblio può ricondursi alla sentenza 13 maggio 1958, n. 1563 della Corte di Cassazione, relativa al caso del questore di Roma coinvolto nella strage delle fosse Ardeatine, in occasione della quale si parlò di “diritto al segreto del disonore”.

[3] Cfr. ampiamente Finocchiaro, Sub art. 17, in D’Orazio-Finocchiaro-Pollicino-Resta (a cura di), Codice della privacy e data protection, Milano, 2021, pp. 325-335.

[4] Il diritto alla deindicizzazione affonda le sue radici nella nota sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea Google Spain, la sentenza 13 maggio 2014, C-131/12, Google Spain SL, Google Inc. c. Agencia Española de Protección de Datos (AEPD), Mario Costeja González, disponibile al link https://curia.europa.eu/juris/liste.jsf?language=it&num=C-131/12. Per approfondimenti, cfr. Resta-Zeno Zencovich, Il diritto all’oblio dopo la sentenza Google Spain, Roma, 2015.